La Cassazione ribadisce: il regolamento condominiale deve indicare con precisione le attività vietate. Il giudice valuta caso per caso se il divieto è valido.
Quando si tratta di stabilire i limiti all’utilizzo delle unità immobiliari in condominio, il regolamento condominiale gioca un ruolo decisivo. Ma affinché un divieto sia efficace, la norma che lo prevede deve essere espressa in modo chiaro e non generico. È quanto ha ribadito la Corte di Cassazione in un recente caso che ha coinvolto un condomino intenzionato ad aprire uno studio dentistico, a cui l’assemblea aveva opposto un divieto.
Il regolamento di condominio, specie se di natura contrattuale, è l’elemento di riferimento per stabilire la liceità dell’utilizzo delle singole unità immobiliari. Qualora vi sia una norma che limita le destinazioni d’uso, il giudice dovrà valutarne validità e portata, verificando se essa incide legittimamente sui diritti dei singoli.
Il regolamento contrattuale (o convenzionale) si distingue da quello assembleare per modalità di approvazione e contenuto. Il primo è vincolante solo se accettato espressamente da tutti i condomini, mentre il secondo può essere approvato a maggioranza, ma con limiti precisi: non può incidere sui diritti esclusivi dei singoli se non con il consenso unanime.
La legge n. 220/2012 ha chiarito che il regolamento è obbligatorio solo nei condomìni con più di dieci partecipanti, ma può comunque essere redatto anche su base volontaria nei casi diversi.
Tra le clausole più sensibili rientrano quelle che vietano determinati usi delle unità private. Ma attenzione: un divieto non può limitarsi a un generico riferimento a “pregiudizi” o “disturbi”. Deve essere chiaro, specifico e riferibile in modo univoco all’attività vietata. In caso contrario, sarà il giudice a dover interpretare la norma regolamentare e verificarne l'applicabilità al caso concreto.
Un esempio chiarificatore proviene da una sentenza del Tribunale di Milano (31 dicembre 2005), che ha escluso la violazione del regolamento da parte di un ristorante, in assenza di un divieto espresso contro l’attività di ristorazione. Un generico richiamo a “pregiudizi o disturbi” non è sufficiente a fondare un divieto valido.
Anche in caso di locazione, il regolamento condominiale resta vincolante. Se un’unità è data in affitto per una destinazione d’uso vietata, il contratto di locazione non sarà nullo, ma il condomino-locatore potrà essere chiamato a rispondere nei confronti del condominio. Allo stesso modo, anche l’inquilino deve rispettare il regolamento: può essere citato in giudizio se viola le norme condominiali.
Quando la norma è ambigua, il giudice è chiamato a interpretarla secondo l’art. 1362 c.c., tenendo conto non solo del significato letterale delle parole, ma anche dell’intenzione comune dei condomini. Questo è particolarmente importante quando il divieto si riferisce a categorie ampie o generiche, come “ambulatori per malattie infettive”, che potrebbero includere – o escludere – attività come studi dentistici, ginecologici, dermatologici, ecc.
Per evitare conflitti, un regolamento condominiale deve indicare in modo preciso e inequivoco le destinazioni d’uso vietate. L’utilizzo di espressioni generiche lascia spazio all’interpretazione giudiziale e può rendere inefficaci i divieti. Quando è in gioco il bilanciamento tra proprietà esclusiva e interesse collettivo, la chiarezza normativa è il primo strumento di tutela per tutti i soggetti coinvolti.
Fonte: condominioweb.com
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